Il certificato di agibilità presuppone la conformità delle opere realizzate al titolo abilitativo
Consiglio di Stato: impossibile ottenere il certificato di agibilità senza conformità al titolo abilitativo edilizio
Data:
2 Ottobre 2022
Nella sentenza 6780/2022 dello scorso 2 agosto, il Consiglio di Stato ha ricordato che il certificato di agibilità presuppone in ogni caso la conformità delle opere realizzate al titolo edilizio abilitativo.
Nello specifico, si dibatte sul ricorso contro una sentenza del 2017 con cui il Tar Puglia ha rigettato il ricorso di primo grado e i relativi motivi aggiunti, proposti (dagli odierni appellanti) avverso i provvedimenti assunti dal Comune e dalle altre Amministrazioni resistenti, riferiti a procedimenti di condono, di agibilità, di accertamento di conformità, di compatibilità paesaggistica, di demolizione, di sospensione dell’attività di stabilimento balneare e di revoca delle autorizzazioni commerciali, nonché di determinazione dell’indennità di occupazione, aventi ad oggetto lo svolgimento dell’attività di stabilimento balneare.
Secondo quanto dedotto in appello, in particolare, sono stati censurati in primo grado:
- il diniego del rilascio dell’agibilità allo stabilimento balneare, assunto con provvedimento comunale, asseritamente illegittimo perché adottato in pendenza del procedimento di condono e, comunque, contraddittorio, risultando la struttura in possesso del nulla osta igienico sanitario e di tutte le certificazioni sulla sicurezza e conformità degli impianti;
- il diniego di condono edilizio, intervenuto a distanza di oltre trenta anni dall’avvio del procedimento, incentrato su relazioni e pareri ritenuti erronei in ordine sia alla datazione dell’abuso, sia alla tipologia delle strutture esistenti;
- il diniego di accertamento di conformità ex art. 36 DPR 380/2001, analogamente assunto sulla base di pareri generici e immotivati;
- le ordinanze di demolizione, di sospensione dell’attività di stabilimento balneare e di revoca delle autorizzazioni commerciali, fondate sui pregressi provvedimenti, inficiate da vizi autonomi e di legittimità derivata;
- gli atti prescrittivi del pagamento di indennizzi per occupazione abusiva del demanio, fondati sul presupposto – asseritamente erroneo – della parziale occupazione, da parte dell’appellante, di un’area demaniale.
Il certificato di agibilità presuppone la conformità delle opere al titolo abilitativo
Secondo i ricorrenti, non vi sarebbe identità di disciplina tra titolo abilitativo edilizio e certificato di agibilità, tenuto conto che, da un lato, non potrebbe opporsi un diniego di agibilità soltanto sulla base della supposta difformità dell’immobile dal progetto approvato; dall’altro, il rilascio del certificato di agibilità non potrebbe impedire l’esercizio del potere repressivo di abusi edilizi in concreto riscontrati.
In ogni caso, il Tar avrebbe dovuto accertare l’avvenuta formazione del silenzio assenso sulla richiesta di parte, ai sensi di quanto previsto dall’art. 25, comma 4, Testo Unico Edilizia nella formulazione ratione temporis applicabile nella specie.
Per Palazzo spada la tesi non regge, visto che:
- l’art. 24 del Testo Unico Edilizia, nella formulazione ratione temporis applicabile alla specie, tenuto conto della data di adozione del provvedimento di diniego impugnato in prime cure, prevedeva che: “Il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente“;
- il successivo art. 25 poi, nell’elencare le declaratorie a corredo della richiesta, menzionava espressamente la “conformità dell’opera rispetto al progetto approvato“, e, dunque, la sua regolarità edilizia e, conseguentemente, urbanistica.
Il D. Lgs. 222/2016, che ha ricondotto la certificazione al regime della segnalazione certificata di inizio attività-SCIA, ha confermato la rilevanza del requisito della conformità edilizia ed urbanistica, prevedendo – nel sostituire l’art. 24 del dpr 380/01 – la “conformità dell’opera al progetto presentato” tra quanto deve essere attestato dal tecnico asseverante all’atto della presentazione della dichiarazione.
Alla stregua del quadro normativo di riferimento, emerge che, sebbene il permesso di costruire ed il certificato di agibilità svolgano effettivamente funzioni differenti, mirando alla tutela di beni giuridici non coincidenti – il certificato di agibilità, in particolare, ha la funzione di accertare la realizzazione dell’immobile secondo le norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti, mentre il titolo edilizio è finalizzato all’accertamento del rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche (Consiglio di Stato Sez. VI, 29 novembre 2019, n. 8180) – il certificato di agibilità presuppone, comunque, la conformità delle opere realizzate al titolo edilizio abilitativo.
Ne deriva che l’Amministrazione, in sede di rilascio del certificato di agibilità, è chiamata a verificare (tra l’altro) la sussistenza della conformità urbanistica ed edilizia delle opere oggetto dell’istanza di parte, non potendo provvedere al suo accoglimento a fronte di beni abusivi.
In definitiva, deve ritenersi che la conformità tra le opere realizzate e il titolo edilizio abilitativo:
- ove erroneamente affermata in sede di rilascio del certificato di agibilità, anziché determinare una preclusione del potere di vigilanza in materia urbanistica ed edilizia – foriera di un’inammissibile sanatoria di opere abusive – non impedisca futuri interventi repressivi in relazione ad opere che dovessero risultare non regolarmente assentite;
- ove correttamente esclusa nell’esaminare l’istanza di parte, tendente al rilascio del certificato di agibilità, impedisca il suo accoglimento, difettando un presupposto del provvedere, non potendosi dichiarare agibili immobili abusivi.
Nel caso di specie, una volta riscontrata l’abusività delle opere, prive di titolo edilizio abilitativo (anche in sanatoria), l’Amministrazione ha, dunque, correttamente rigettato l’istanza di parte, difettando un presupposto necessario per rilascio del certificato di agibilità.
L’agibilità e il silenzio assenso
In merito alla presunta formazione del silenzio-assenso, invece, il Consiglio di Stato sottolinea che alla stregua di quanto precisato in materia di agibilità (sez. II, 17 maggio 2021, n. 3836), affinché possa decorrere il termine per la maturazione del silenzio assenso è necessario che la domanda presentata sia completa delle indicazioni previste dal comma 1 del medesimo art. 25 del D.P.R. n. 380 del 2001 (ratione temporis applicabile nella specie), ovvero, per quanto qui di interesse, della declaratoria di conformità al progetto edilizio.
Pertanto, affinché possa formarsi il silenzio assenso, non è sufficiente il mero decorso del tempo dalla presentazione della domanda senza che sia presa in esame e sia intervenuta risposta dall’Amministrazione, ma occorre, anche, la contestuale presenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge, ossia degli elementi costitutivi della fattispecie di cui si deduce l’avvenuto perfezionamento, con la conseguenza che il silenzio assenso non si forma nel caso in cui la fattispecie rappresentata non sia conforme a quella normativamente prevista (tra gli altri, Consiglio di Stato, sez. VI, 21 gennaio 2020, n. 506).
Con riferimento alla materia in esame, alla stregua di quanto sopra osservato, il potere di rilasciare il certificato di agibilità risultava attribuito soltanto con riferimento ai beni conformi sul piano urbanistico ed edilizio: la presentazione dell’istanza di parte per ottenere un certificato di agibilità in relazione ad immobili abusivi (perché non assistiti da titolo edilizio e ancora non sanati con il rilascio del condono), diversi da quelli previsti dalla disciplina positiva, non consentiva, dunque, l’integrazione della fattispecie astratta per la quale risultava ammissibile il rilascio del titolo provvedimentale e, dunque, la formazione, in suo luogo, del silenzio assenso sull’istanza di parte.
Né avrebbe potuto argomentarsi diversamente sulla base del possesso del nulla osta igienico sanitario, trattandosi, comunque, di atto inidoneo a superare la carenza di (altro) requisito (relativo alla conformità urbanistico ed edilizia) parimenti necessario per la formazione del titolo per silentium.
La sanatoria negata e la dimostrazione dei lavori prima del 1967
L’appellante deduce che il diniego di condono sarebbe illegittimo per violazione della legge 47/85, in quanto, facendosi questione di vincoli posti successivamente all’intervento edilizio e non risultando carenze nella produzione documentale, si sarebbe perfezionato il silenzio assenso ai sensi dell’art. 35 L. n. 47/85.
L’appellante sostiene, inoltre, di avere documentato l’anteriorità delle opere rispetto alla data del 1967, all’uopo invocando “l’unico dato certo esistente più prossimo alla data di realizzazione dei manufatti”, costituito da un’aerofotogrammetria risalente al 1979, attestante la consistenza dei manufatti.
Anche sotto questo aspetto, il ricorso è da respingere, visto che la prova circa il tempo di ultimazione delle opere edilizie è posta sul privato e non sull’amministrazione, atteso che solo il privato può fornire (in quanto ordinariamente ne dispone) inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto; mentre l’Amministrazione non può, di solito, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 06 febbraio 2019, n. 903).
Tale prova deve, inoltre, essere rigorosa e deve fondarsi su documentazione certa e univoca e comunque su elementi oggettivi, “dovendosi, tra l’altro, negare ogni rilevanza a dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà o a semplici dichiarazioni rese da terzi, in quanto non suscettibili di essere verificate (Cons. Stato, Sez. VI, 4/3/2019, n. 1476; 9/7/2018, n. 4168; Sez. IV, 30/3/2018, n. 2020)” (Consiglio di Stato, sez. VI, 20 aprile 2020, n. 2524).
Ne deriva che i documenti valorizzati dal ricorrente non siano idonei a dimostrare l’anteriorità delle opere de quibus rispetto alla data del 1967.
In particolare, l’aerofotogrammetria del 1979 cristallizza lo stato dell’edificazione esistente alla data del 1979, ma non consente di presumere che tale stato fosse identico a quello risalente ad oltre dieci anni prima, in particolare al periodo anteriore al 1967.
Il rilevante iato temporale esistente tra la data valorizzata dall’appellante (1967) e l’aerofotogrammetria posta a base dell’atto di appello (1979) rende certamente possibile che le opere fotografate alla data del 1979 (a prescindere dalla loro coincidenza con le opere rilevanti nell’odierno giudizio) fossero state edificate nel periodo compreso tra il 1967 e il 1979, con conseguente inidoneità di tale documento a provare l’anteriorità delle opere in contestazione rispetto al 1967.
In definitiva, il complessivo quadro probatorio evidenzia non solo che il ricorrente ha omesso di dimostrare l’anteriorità al 1967 delle opere oggetto della domanda di condono – il che già basterebbe per il rigetto delle censure – ma anche che alla data del 1967 non vi erano opere edili sul fondo nella disponibilità del ricorrente stesso, risultando acquisiti al giudizio atti incompatibili con un’attività edilizia a tale data già esaurita.
Tali considerazioni conducono al rigetto del secondo motivo di appello, sia nella parte in cui deduce l’anteriorità delle opere de quibus rispetto al 1967, sia in quella in cui tende a censurare l’illegittimità di una delle autonome rationes decidendi alla base del diniego di condono, data dalla violazione della fascia di rispetto stradale imposta con D.M. n. 1404/68.
Il vincolo di inedificabilità assoluta
Difatti, non risultando dimostrata la datazione delle opere oggetto della domanda di condono, non risulta comprovata neppure la loro anteriorità rispetto all’imposizione del vincolo di cui al D.M. n. 1404/68, avente natura di inedificabilità assoluta e, dunque, ostativo alla sanatoria delle opere edificate in sua violazione.
Il vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata.
Il divieto di costruzione sancito dal D.M. 1º aprile 1968, n. 1404 non può essere inteso restrittivamente, al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
Pertanto, le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. VI, 30 novembre 2011, n.7975).
Il diniego di accertamento di conformità
Iniziando la disamina dal diniego di accertamento di conformità ex art. 36 DPR n. 380/01, Palazzo Spada ribadisce che l‘onere nella prova di dimostrare il ricorrere delle circostanze previste dalla legge per l’accoglimento dell’istanza di sanatoria verte in capo al richiedente: “Tale principio è, peraltro, confermato da granitica giurisprudenza per quanto riguarda specificamente la prova della data di realizzazione degli abusi al fine dell’applicabilità del regime di sanatoria, sia esso quello inerente all’ “ordinario” accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, già art. 13 della L. n. 47 del 1985, sia esso quello delle “sanatorie eccezionali” disposte con apposite legge di c.d. condono edilizio” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 20 gennaio 2022, n. 358).
Con particolare riferimento al procedimento di accertamento di conformità ex art. 36 DPR n. 380/01, l’individuazione puntuale della data di realizzazione dell’immobile concorre a delineare la fattispecie costitutiva della sanatoria, occorrendo verificare se le opere in concreto edificate siano conformi rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia di riferimento vigente non soltanto al momento di presentazione della domanda, ma anche al momento dell’edificazione delle relative opere.
Come sopra osservato, l’esatta datazione delle opere non è stata provata dalla parte ricorrente, invocando la stessa documenti inidonei a dimostrare l’epoca dell’edificazione.
Tali considerazioni sono sufficienti per confermare la legittimità del diniego di accertamento di conformità, tenuto conto che, non avendo la parte istante dimostrato l’esatta datazione delle opere de quibus, il Comune non avrebbe potuto verificare (per causa imputabile all’istante) la ricorrenza di un presupposto, dato dalla conformità delle opere rispetto alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione, necessario per l’accoglimento dell’istanza di parte.
In ogni caso, l’insussistenza dei presupposti per la sanatoria delle opere abusive (straordinaria, ai sensi della disciplina condonistica, nonché ordinaria, ai sensi dell’art. 36 TUE) esclude ogni interesse dell’appellante a contestare ipotetiche illegittimità inficianti la valutazione negativa di compatibilità paesaggistica, non potendo, comunque, provvedersi, stante l’insanabilità sul piano edilizio ed urbanistico, alla conservazione delle opere per cui è causa (pure ove, in ipotesi, compatibili con le esigenze di tutela sottese all’imposizione del vincolo paesaggistico).
Ordine di demolizione: a chi si notifica
Ai sensi dell’art. 31 dpr 380/01, l’ordinanza di demolizione non deve essere notificata esclusivamente all’attuale proprietario, essendo tenuto al ripristino anche il responsabile dell’abuso.
Nella specie, l’ordinanza di demolizione è stata notificata al ricorrente “in qualilo stesso avesse trasferito – alla data di notificazione dell’ordinanza – la titolarità dei beni de quibus, lo stesso avrebbe comunque dovuto ritenersi passivamente legittimato a ricevere la comunicazione del provvedimento amministrativo in qualità di responsabile dell’abuso, essendo in tale veste parimenti tenuto al ripristino dello stato dei luoghi antecedente alla commissione dell’illecito edilizio.
Né potrebbe ritenersi che l’omessa notificazione dell’ordine di demolizione (anche) al soggetto proprietario influisca sulla legittimità del provvedimento repressivo, facendosi questione di circostanza afferente al solo piano dell’efficacia e, in particolare, alla idoneità dell’ordine di demolizione a produrre effetti nei confronti di soggetti che, sebbene passivamente legittimati, non abbiano ricevuto la comunicazione del provvedimento sanzionatorio (Consiglio di Stato, sez. VI, 24 luglio 2020, n. 4745).
L’omessa notificazione dell’ordine di demolizione al proprietario, in particolare, impedirebbe all’Amministrazione di invocare nei confronti del titolare un atto allo stesso non indirizzato, ma non potrebbe tradursi in un vizio di legittimità del provvedimento sanzionatorio assunto nei confronti del responsabile dell’abuso.
Ultimo aggiornamento
2 Ottobre 2022, 09:19